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I rischi e i costi del ritorno statalista

di Salvatore Carrubba

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18 ottobre 2008


Nel 1906, il grande sociologo tedesco Werner Sombart pubblicava un libro intitolato «Perché negli Stati Uniti non c'è il socialismo?». Tra le spiegazioni, lo studioso insisteva sull'indomito spirito individualistico del popolo americano e sulla conseguente ansia competitiva che lo rende immune da tentazioni collettiviste. Se la sua interpretazione (finora confermata dalla storia di quel Paese) è ancora vera, il profilo del capitalismo americano non dovrebbe essere alterato in profondità dal pur forsennato interventismo di queste settimane. Esso, in effetti, è stato presentato come un passo del tutto eccezionale e temporaneo, per salvare – certo – le banche, ma soprattutto per iniettare fiducia ed evitare di sprofondare nel vortice che nel 1929 trasformò una caduta di Borsa nell'infarto dell'economia mondiale.
Si può sperare lo stesso dell'Europa, che statalista e socialista è stata a lungo e in profondità? Qui manca un Sombart che ci possa tranquillizzare. Negli Usa, la svolta è vissuta come ripiego temporaneo, in un ambiente che nei suoi confronti resta scettico e diffidente; in Europa sembra attecchire in un terreno dissodato da tempo, che pareva non aspettasse altro. Lì c'è preoccupazione per lo statalismo che ritorna. Qui c'è entusiasmo per il liberismo che tramonta.
Che il clima fosse maturo, prima ancora delle ultime dichiarazioni del Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, lo avevano dimostrato le riflessioni sulle quali si sono costruiti i successi della nuova (in tutti i sensi) destra europea: da quelle di Giulio Tremonti alle altre di Nicolas Sarkozy, volte a enfatizzare i limiti del mercato e le opportunità di un intervento statale riveduto. Indubbiamente, i fatti hanno portato frecce al loro arco. E l'esigenza della stabilità ha fatto, e farà, premio sulla purezza dei principi. Fin qui, non ci sarebbe da scandalizzarsi: nessun fautore del mercato, se non gli anarco-liberisti, esclude il principio dell'intervento statale, quando necessario. Il punto è che non pochi presentano ora questo intervento d'emergenza come una svolta profonda e duratura, una scelta epocale di ritorno al passato, una detronizzazione definitiva del mercato a favore dello Stato. I rischi e i costi di questo statalismo di ritorno, e soprattutto della svolta culturale che esso sembra annunciare, non sono insignificanti.
Ed essi minacciano soprattutto i piccoli, i bravi, le città, l'Europa. I primi si chiederanno quale sia la rete di sicurezza che lo Stato sta per approntare a loro favore. Sentono parlare di salvataggi bancari, di strumenti contro le Opa ostili, di aiuti di Stato «imperativo categorico»; e cercheranno di ricordare, amareggiati, quali siano stati gli aiuti ricevuti in questi anni dalle piccole imprese che, con le unghie e con i denti, sono riuscite a sopravvivere, ad aggredire i mercati internazionali, a salvaguardare la propria competitività, ad assicurare quote crescenti di export, a preservare il tessuto produttivo nel nostro Paese. A loro, lo statalismo promette poco: una sterminata letteratura e una incontestabile esperienza dimostrano che, quando le scelte si politicizzano, vince chi sulla politica ha maggiore potere contrattuale; chi ha più voce, non più merito.
Perciò pagheranno anche i bravi, che cominceranno a interrogarsi sull'utilità dei propri sforzi, ora che vedono, se non premiati, certo perdonati errori strategici e gestionali di molti concorrenti: di nuovo, l'interventismo pubblico minaccia di corrompere i meccanismi di mercato (i più automatici e trasparenti, nonostante tutto), ponendo sullo stesso piano, per esempio, banche sane e ben gestite (tra cui molte italiane) con autentici rottami (tutti stranieri) salvati dagli Stati. D'ora in poi, potrebbe rafforzarsi la tentazione, più che ad amministrare bene, a trovare gli agganci giusti.
Le città, naturalmente, non avranno più alcuna motivazione a privatizzare. Ora che si festeggia la fine del privato con lo stesso entusiasmo col quale fu salutata la caduta del Muro di Berlino, dovrebbero essere proprio i Comuni a rinunciare alla difesa indomita e fin qui fortunata dello statalismo municipale? Proprio ora che statalista torna e essere lo Stato? Meglio non farsi illusioni: pur di difendere radicati, e irrinunciabili, centri di potere, gli amministratori locali (quale che sia il loro colore politico) saranno piuttosto tentati dall'aumento di tasse e tariffe.
Infine l'Europa: oggi, naturalmente, dell'Unione europea è di moda parlare male, denunciare la bulimia regolamentatrice, riconoscervi il simbolo domestico di una globalizzazione squilibratrice. Molto deve fare per riacquistare la fiducia dei cittadini europei. Ma davvero questi credono di poter fare a meno del mercato unico di cui la moneta comune è simbolo e strumento? E come conciliare allora il funzionamento di questo grande mercato, che ai Paesi membri ha assicurato opportunità formidabili di sviluppo e prosperità, in un sistema che tornasse a essere condizionato e deformato dalla sommatoria degli aiuti nazionali?
Un conto, dunque, è affrontare un'emergenza, come giudiziosamente stanno facendo i Governi europei; un altro, annunciare la fine di un'epoca. Oltre la quale, che cosa ci attenderebbe? La svolta thatcheriana che possiamo assumere come il punto di avvio del mondo globalizzato e "mercatizzato" l'anno prossimo compirà trent'anni: in Europa esiste dunque una generazione alla quale è estranea l'idea che lo Stato fabbrichi panettoni e che i banchieri siano nominati dai politici. Noi che ci siamo passati, sappiamo che non vale la pena farle provare quell'ebbrezza.

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